La prima curiosità che affiora dopo aver ascoltato d’un fiato il disco d’esordio di Leonardo Gallato, giovane artista siciliano cresciuto a Rosolini (SR) e poi trasferitosi a Roma, riguarda la scelta del titolo, quel “Tacet” rievocatore delle indicazioni date da John Cage per l’esecuzione della sua celebre e rivoluzionaria opera 4’33’’. Ma se lì il silenzio voleva in qualche modo rivendicare la propria “parità di diritti” rispetto agli altri parametri musicali, facendosi dunque spazio come ‘materia sonora’ per l’intera composizione, qui siamo dinnanzi ad una storia che ha a che fare prima di tutto con l’arte poetica: è lo stesso Leonardo, in un’intervista rilasciata nel giugno del 2015 a seguito della pubblicazione della sua raccolta di poesie intitolata proprio Silenzi (Terre Sommerse, Roma), a spiegare come il riferimento non sia tanto «alle pause, che pure hanno valore sostanziale entro la musica, ma più semplicemente al fatto che la poesia nasce dal silenzio e finisce col silenzio della lettura (https://www.thefreak.it/silenzi-di-musica-e-poesia-intervista-a-leonardo-gallato/)».
E, ci si chiede, come si lega tutto ciò con un disco di canzoni?
Tacet va considerato come parte di un più ampio progetto che l’autore porta avanti da diverso tempo e che vede dialogare fra loro, in un continuo gioco di rimandi profondi, la poesia nella sua forma ‘pura’ e la canzone. Delle nove canzoni che delineano quest’opera discografica, solo tre non fanno parte della raccolta poetica Silenzi: Vientu – traccia d’apertura dell’album e primo singolo estratto – Canzuni pi Giuda ‘scariota e Saluti, brano di chiusura del lavoro; queste ultime due, la prima in siciliano e la seconda in italiano, sono tuttavia nate – come mi ha riportato personalmente lo stesso autore – «assolutamente come poesie». Dall’altra parte Notturno nasce invece come canzone per voce e chitarra, viene pubblicata come poesia pura in Silenzi e viene edita nuovamente come canzone, riarrangiata, all’interno del disco Tacet. Una panoramica, questa, che può suggerire moltissimo rispetto a quello che è nel complesso il mondo creativo e artistico di Leonardo, dove la parola cantata può diventare parola scritta, e quindi letta, e dove viceversa la parola poetica, che in sé nasce con una musicalità intrinseca, può trasformarsi a poco a poco in canzone, acquistando così una sua natura melodica del tutto nuova. Ed è solo avendo chiare tali premesse, che ci si può mettere comodi comodi per lasciarsi trasportare nel viaggio che questo album d’esordio ci regala.
Registrato, mixato e masterizzato presso il Beat Bazar Studio di Cremona, da Nicola “Kruz” Carenzi, il disco di Leonardo Gallato (voce e chitarre acustiche/elettriche) vede la partecipazione di musicisti molto interessanti come Giulio Gianì (sassofoni), Claudio Covato (chitarre classiche/elettriche), Daniele Di Pentima (batteria e percussioni) e Salvatore Innorcia (basso elettrico). Il loro libero e totale coinvolgimento negli arrangiamenti dei brani, spesso nati al confine fra una preparazione da sala prove e il momento dell’incisione stessa, è senz’altro uno dei segreti dell’eterogeneità stilistica del disco nel suo insieme, che passa senza nessuna forzatura da un riff potente e aggressivo come quello di Vientu, quasi in stile King Crimson, a Comu ciova ciovi fora, dove la band mescola tinte rock e soul all’interno di un flusso sempre più denso e crescente, che trasporta il canto di Leonardo e che da questo, a sua volta, si lascia trascinare. Caso particolare è E la bedda, interpretazione di un’anonima canzone siciliana: qui il canto è accompagnato intimamente dalla sola chitarra acustica, scelta quanto mai adatta dal momento che siamo di fronte a un testo di natura sentimentale, rivolto esplicitamente ad una “lei”, la “bedda” appunto. Si tratta tuttavia di un canto piuttosto sofferto, e a dircelo non sono solo alcune immagini del testo, come «ci dicìa “a ttìa” e si ni trasìa», ma anche il lungo basso cromatico discendente su una tonalità minore che guida tutto l’accompagnamento chitarristico e che, come nella miglior tradizione delle arie di lamento di ambito ‘classico’, offre un importante contributo espressivo alle parole. La tematica sentimentale la si ritrova subito dopo in Matinata, nata e pubblicata come poesia, ma trattata in modo completamente opposto rispetto a E la bedda. Ciò che regge tutta la canzone è in questo caso l’unione fra la quasi ossessiva ripetizione della singola parola o del singolo frammento di verso e il continuo gioco combinatorio fra segmenti verbali e relativi accompagnamenti musicali; un doppio espediente che non va limitato ad una necessità di ampliare la forma – che pure forse c’è, vista la brevità della poesia originaria – ma più probabilmente va relazionato alla volontà di esprimere, insieme, la confusione creata dalla sfera onirica entro cui il testo si cala e la necessità di una meditazione, suggerita da un mantra musicale entro il quale anche noi non possiamo far altro che lasciarci trasportare. Giuro tutto, ma non di essere sincero è invece la prima delle due tracce con testo in italiano di tutto il disco (l’altra è Saluti): le atmosfere, almeno musicalmente, sembrano distendersi e rasserenarsi, con uno dei temi di sassofono più leggeri e allo stesso tempo riusciti dell’intero disco. Ciò che qui colpisce è l’efficacia della fitta, costante e intricata maglia polifonica creata dagli strumenti a corda a supporto dei temi strumentali e delle parti cantate, come se anche la musica volesse, a suo modo, raccontarci degli strati di significato di uno dei testi forse più difficili e affascinanti del disco. Il canto in stile ‘arabeggiante’ di Moire, sostenuto da un lungo ed etereo bordone di due voci, ci accompagna dritti verso gli inferi, da dove Gallato decide di dar voce, in prima persona, al personaggio di Giuda Iscariota, che nel canto XXXIV dell’Inferno dantesco non solo appare come «l’anima che ha la maggior pena», ma non gode di nessuno spazio per esprimersi. Canzuni pi Giuda ‘Scariota è fra i pezzi più dinamici ed elastici dell’intero lavoro, nonché uno dei più particolari per ciò che concerne l’arrangiamento. A farla subito da padrona è ancora un’idea di natura polifonica, dove chitarra acustica, chitarra classica e sax si rincorrono, imitandosi, su un tema dal sapore antico che accentua tutti gli ottavi della scansione e anticipa quello che sarà il refrain della canzone, «giuramentu app’a fari / prima ancora ca nascìa»; le strofe mantengono invece la stessa stretta scansione in ottavi, ma la dilatazione del canto e la sua particolare articolazione offrono il giusto spazio alle parole di Giuda, gradualmente più potenti e sofferte così come più intenso si fa l’accompagnamento strumentale, che esplode in un dilaniato intermezzo di libertà espressiva ed esecutiva in grado di gettare un ponte, almeno a livello timbrico, con il finale di Vientu. Da qui emerge un’ultimissima sezione conclusiva, dove con un gioco di ripetizioni simile a quello di Matinata e una nuova linea melodica di voce, Giuda intende ribadire la sua personale visione della vicenda. Una nota particolare va spesa per la capacità interpretativa di Leonardo, che qui come altrove riesce a mettere in risalto tutte le sfumature della sua voce, da quelle più gravi, cupe e roche a quelle più luminose, dense e rotonde, il tutto all’interno di un percorso espressivo dove musica, parola e canto sono in uno stato di simbiosi continua. Lo stesso valga per Comu ‘ntauru mattanza, una canzone in cui centrale è senza dubbio la sensazione della pesantezza e dell’oscillazione di un toro che “non vede e non sente”, e dunque chiede di essere afferrato per le corna, di poter sentire il vento che fa sbattere le porte e di poterle toccare, di poterle sfondare, di poterle “sentire” in tutta la loro ruvidezza; anche qui abbiamo di fronte un lungo tragitto espressivo dove un tema di sassofono che casca rovinosamente su due note dissonanti introduce un cantato che, in un continuo dialogo proprio con il sax, si fa via via sempre più intenso e sofferente fino ad arrivare al punto cruciale di tutta la canzone, quello in cui la richiesta è di non finire come un toro al mattatoio; ma è proprio qui, quando il sassofono ruba lo spazio principale alla voce lasciandosi andare in un’improvvisazione solista, che ci immaginiamo tutte le grida scomposte dell’animale. L’arpeggio di acustica che apre la canzone successiva, Notturno, ci riporta subito in una sfera diversa, più intima, ma non per questo meno intensa o sofferta. Notturno è senz’altro una delle canzoni più riuscite dell’album, per diversi motivi: a livello strettamente musicale presenta uno dei ritornelli più ‘forti’, di quelli che non appena il disco è terminato continuiamo, inconsciamente, a cantare. E continueremmo a farlo per ore. Ma la forza di Notturno credo sia da individuare in una visione di insieme del disco: è qui che si manifesta con maggiore spontaneità una sorta di sintesi finale fra i tre grandi temi che percorrono tutto il lavoro: l’uomo, la natura, l’amore. In Notturno gli elementi si mescolano, la donna e l’uomo sono essi stessi natura, sole, luna, mattino, notte; notte che è in grado di sospendersi nel tempo e di guardare ferma, e in silenzio, la donna. Lo stesso fa l’uomo, che tuttavia “col mondo non c’entra” e che all’interno di una dolce armonia fra donna e natura elabora, anche lui in silenzio, la propria visione di un amore. In chiusura Saluti, un brano che ci fa immaginare lo stesso uomo di Notturno abissato in una dimensione talmente intima e personale da arrivare a chiedere (alla donna?) di portare i propri saluti al mare, ma anche alla campagna, agli alberi di limoni, alla pioggia autunnale, alla terra, alle foglie secche, ai fiori appassiti sulle tombe dei morti, ai vivi, e, infine, al silenzio, quello che sfronda gli ulivi.
Tacet è in conclusione un lavoro di uno spessore davvero notevole, difficile da inquadrare semplicemente come una buona opera prima di un cantautore emergente. Tacet è semmai un ulteriore tassello che si inserisce nell’ampio mosaico di un artista poliedrico come Leonardo Gallato, in grado di ottenere risultati eccellenti sia nel campo della poesia puramente intesa, sia nel campo della canzone. Ed è anzi proprio su quel sottile crinale fra le due ‘arti’, dove non tutti sono in grado di stare, che le canzoni di Tacet trovano il modo di emergere in tutta la loro peculiarità. Brani non facili da inquadrare a livello formale perché gli schemi in rima più tipici della canzone lasciano posto alla libertà della parola poetica a cui Leonardo vuole restare il più fedele possibile. Il che, si badi bene, non significa affatto che le canzoni manchino di una loro fisionomia. Anzi, è proprio grazie alla capacità di giocare con la parola stessa, di elasticizzarla col canto, di ripeterla laddove necessario, e soprattutto di mantenerla in costante e stretta relazione con la musica che l’accompagna, che l’autore riesce a dispiegare delle strutture che non appaiono mai scontate, e che ogni volta sono in grado di stupirci. Così come a stupirci è la difficoltà di trovare un chiaro bacino di genere di riferimento entro cui collocare un album come Tacet, dove il discutibile aggettivo ‘popolare’, che qualcuno potrebbe scegliere per via dell’impiego del dialetto siracusano, viene in realtà inglobato in un campo ben più ampio dove sono in grado di convivere più che serenamente sonorità jazz, idee di natura contrappuntistica e polifonica, riff monolitici come nella migliore tradizione rock e sprazzi che risentono di continuo di un’esperienza d’ascolto, intesa in senso ampio, del blues.
Claudio Cosi